domenica 18 marzo 2012

Uno su mille ce la fa

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Carmina non dant panem ripeteva ogni tanto mio padre con una punta di amarezza e una punta di ironia, per dire che il denaro va in direzione opposta a quella della cultura. Alla lettera il motto si riferiva alla poesia e al canto, ma credo che valga in buona misura anche per le altre espressioni artistiche. Beninteso, non mancano coloro che ci hanno fatto fortuna; ci sono narratori e pittori che, anche dal punto di vista economico, se la passano abbastanza bene. Il fatto è però che fra i tanti che ci provano, questo privilegio capita solo, come dice il titolo della vecchia canzone di Morandi, a “uno su mille”. Troppo poco. Dal punto di vista statistico è quasi come giocare al casinò o alle slot machine: alla fine in 999 perdono e uno solo vince, mentre per coloro che si dedicano al commercio, all’artigianato o alle libere professioni, il rapporto è grosso modo l’inverso.

A parziale conferma del motto bisogna aggiungere che, anche nel caso di quegli artisti che riescono ad emergere, i riconoscimenti arrivano a volte dopo la morte e, se arrivano in tempo, spesso hanno una durata limitata. E’ infatti difficile che un artista riesca a produrre e ‘vendere’ in tutte le stagioni della sua vita: l’ispirazione ha, come in tutte le storie, una fase di incubazione e crescita ed una di massimo rigoglio, ma poi lentamente inizia il declino.
C’è inoltre da aggiungere che, pur tendendo all’assoluto, l’arte è inevitabilmente figlia ed espressione del suo tempo; perciò, se capita che nella società mutino gusti e valori, difficilmente il vero artista riesce ad adeguarsi e, se lo fa, naturalmente ci rimette in termini di coerenza e di stile. Che le Epistole di Seneca, a detta dei librai, a distanza di duemila anni siano ancora le opere più vendute farebbe pensare al valore assoluto e all’intramontabilità di alcuni autori. Io mi chiedo invece se ciò non sia dovuto al fatto che l’attuale crisi spirituale della cultura occidentale somiglia molto a quella della cultura greco-romana dell’epoca e che i rimedi morali suggeriti da Seneca valgano anche oggi per le tante categorie sociali in cui si accumula un certo disagio esistenziale.

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A che scopo queste riflessioni relative alle difficoltà che pesano sulla vita degli artisti? Con l’avvento della tv commerciale si è diffusa a dismisura, e in modo capillare, una grande e narcisistica aspirazione alla visibilità sociale. E che cosa, più dell’arte e delle sue spettacolari forme mediatiche, dà l'illusione di poter aprire un varco in tale direzione?
Ricordo a tal proposito la lunga serie di episodi televisivi americani Saranno famosi (titolo originale Fame, cioè fama, gloria, celebrità), trasmessi anche in Italia negli anni Ottanta. Sembrava che, a furia di ballare e cantare con l’insistenza delle cicale, la carriera artistica fosse per una vasta schiera di aspiranti un percorso impegnativo ma sicuro. Da allora le nascenti tv - mantenute da una pubblicità che noi, ignari, poi paghiamo con gli acquisti - non hanno fatto altro che instillare questa idea, senza però spiegare che il successo è un traguardo ambito da molti ma, per sua natura, riservato a pochissimi; e che, nel rincorrerlo, le circostanze influiscono spesso più del talento.

Pochi giorni fa Fedele Confalonieri – tutti sappiamo chi sia - ha detto in tv che, indotto compreso, Mediaset dà lavoro a circa cinquemila persone e la Rai a circa quindicimila. In totale dunque – fra presentatori, attori, ballerine e tecnici – arriviamo più o meno a ventimila dipendenti. Di questi, chiaramente non tutti raggiungono grande popolarità e non tutti ricavano lauti compensi: i volti che si vedono quotidianamente sullo schermo sono sempre più o meno gli stessi. Largheggiando, facciamo conto che si tratti di cinquemila persone, cioè di un artista di rilievo ogni dodicimila abitanti, concentrati per lo più nelle grosse città in quanto offrono maggiori occasioni di incontro.
Questo rapporto non cambia di molto anche se ad essi aggiungiamo quella tipologia di artisti che non hanno diretti rapporti con la tv (caso peraltro sempre più raro, perché fra arte e spettacolo si creano utili sinergie e convergenze). Quanti saranno in Italia gli scrittori che possono vivere agiatamente di quella loro particolare attività? Di libri se ne producono a bizzeffe, ma per la maggior parte i costi ed i rischi sono a carico dell’autore. Quanti sono i pittori che vivono delle loro tele? Quelli che conosco io, in paese, hanno tutti un impiego stabile e dipingono nel tempo libero. Quanti sono i musicisti ed i ballerini che si esibiscono per un certo numero di giorni all’anno con un cachet che permetta una vita agiata? Facciamo uno ogni dieci o ventimila abitanti? Nella sua canzone, dunque, l'inossidabile Gianni Morandi era stato fin troppo… ottimista.

Ora che il berlusconismo si avvia al tramonto, queste cose bisogna dirle, altrimenti la nostra società e gli individui di cui essa si compone vanno a fondo. Per evitare ciò, bisogna invece tornare al concetto di lavoro come sacrificio, così com’è sempre stato definito dalla dottrina economica, perché la categoria degli artisti, per i quali il lavoro coincide col gioco, costituisce solo una eccezione, riservata a pochi eletti o fortunati. Si sa che chi riesce ad affermarsi in quel campo ha il privilegio di dedicarsi alla sua attività quando e come vuole - un formidabile dipinto o un suggestivo racconto possono essere, e spesso sono, frutto di ispirazione notturna – ma i lavori che in genere consideriamo ‘normali’, fatta eccezione per la panificazione e il furto, sono diurni e, soprattutto, legati a precisi orari e inderogabili impegni.
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