giovedì 5 gennaio 2012

Filmdarivedere: Furore (The grapes of wrath)

.
In California a partire dal 1929 John Steinbeck scrive diciannove romanzi e undici di essi diventano dei film, mentre a Roma Alberto Moravia scrive ventidue romanzi e tredici di essi diventano dei film. Accade spesso che un’opera letteraria diventi il soggetto e la sceneggiatura di un film, ma non è così frequente il caso di narratori che ispirino la cinematografia nella misura dei due autori citati, e di avere una così alta correlazione fra la qualità dei libri e quella dei film.
Tuttavia, mentre i romanzi di Moravia approdano sullo schermo con un certo ritardo per i condizionamenti culturali del regime (La romana è del ‘54), quelli di Steinbeck partono già nel ’39 con Uomini e topi e nel ’40 con Furore. Ed è proprio questo vecchio film che, fra i tanti tratti dai lavori dei due scrittori, almeno per ora invito a vedere, o rivedere.

Nell’ottobre del ‘29 la florida economia degli Stati Uniti improvvisamente si ritrova in ginocchio: la Borsa di New York è in crisi, le banche bloccano i finanziamenti, le industrie licenziano e la disoccupazione fa crollare i consumi; questa è la sequenza assegnata dagli storici alla Grande Depressione di quegli anni per come essa si è manifestata. Ma qualche economista, già all’epoca, la rilesse secondo l’ordine inverso: i lavoratori avevano redditi troppo bassi per comprare il ben di Dio che si trovava nei negozi, i consumi diminuirono drasticamente, le industrie ridussero la produzione e licenziarono, le banche bloccarono il credito e i titoli azionari persero valore.
Nell’una e nell’altra ipotesi, relative al nesso temporale e causale degli eventi, nessun economista contesterà che, una volta innescato il processo di recessione, fra l’aumento della disoccupazione e il calo dei consumi e della produzione si crea un “circolo vizioso” che, se non interrotto, determina un generale impoverimento. E l’America dei primi anni Trenta è un’America ridotta alla povertà, dove a larghissimi strati della popolazione manca persino il cibo. Nel film diretto da John Ford tutto ciò è narrato senza remore e, anche prescindendo da alcune specificità storiche, vale ancora oggi come utile insegnamento.

*

Nello Stato dell’Oklahoma era ancora in uso la mezzadria, un contratto in base al quale il proprietario concedeva ad alcune famiglie di coltivare parte dei suoi terreni in cambio di metà del raccolto. La crisi economica e la spinta alla meccanizzazione induce però i proprietari a vendere tutto a grandi società commerciali, le quali rompono il patto con gli agricoltori e li cacciano via.
Il territorio in cui la storia ha inizio è per lunghi periodi arso dalla siccità e da forti venti (un tema suggestivo e ricorrente nei romanzi di Steinbeck), ma i contadini da mezzo secolo hanno imparato a sfruttarlo senza smarrire il loro spirito da pionieri ed ora, perdendo la casa (spesso una modesta baracca) e il terreno, devono andare via. Ma prima vorrebbero capire di chi è la colpa. Inutilmente: lo scaricabarili non è, fra i giochi di società, un’esclusiva italiana. Riporto il dialogo fra uno di questi contadini e un signore che va lì in una macchina lussuosa per ingiungere lo sfratto:

- “Eh, insomma, col vento di sabbia che tira da queste parti, la mezzadria non può più andare. La terra non rende niente, anzi è passiva. Un uomo con un trattore può arare quindici, venti di questi poderi. Lo paghiamo a giornata e il raccolto è tutto nostro”
- Si, ma, come facciamo a vivere noi con meno di quello che abbiamo adesso? I bambini non mangiano abbastanza, lei lo sa. Sono coperti di stracci. Ce ne vergogneremmo, se non fosse che anche quelli degli altri sono vestiti lo stesso”
- Non so che fare. A me hanno ordinato di dirvi di andarvene da questo podere e io ve lo sto dicendo.
- Ed io dovrei andarmene dalla mia terra?
- Non te la prendere con me, non è colpa mia.
- E di chi, allora?
- Lo sapete di chi è la terra. Della società agricola Sioni.
- E di chi è la società agricola Sioni?
- Ma non è di nessuno. E’ una società.
- Avrà un presidente, no? E lo saprà che così ci condanna a morire di fame.
- Ma non è colpa sua. E’ la banca che gli dice cosa deve fare.
- E va bene. Dov’è la banca?
- A Tulsa, ma con chi te la prendi, lì c’è soltanto il direttore, che sta impazzendo per fare quello che gli impongono da New York.
- Insomma, chi è allora?
- Ah, io proprio non lo so, se no te lo direi.

E’ chiaro di chi è la colpa? Chiaro quanto oggi in Europa per la crisi greca, e poi quella irlandese, e poi quella spagnola, e poi quella italiana. Non delle banche, non delle industrie, non dei governi. La colpa è degli speculatori finanziari: società o uomini invisibili, inconoscibili, introvabili. In quali rapporti essi siano con le banche, le industrie ed i governi non si sa, e forse non si deve sapere. Ma torniamo ai contadini dell’Oklahoma.
Costretti ad andare via, si dirigono, ammassando sui loro camion materassi, pentole e nonni in fin di vita, verso una terra dove di lavoro sembra essercene tanto, la California. Almeno così dice un volantino che astuti latifondisti di quelle terre fanno circolare in tutte le famiglie dell’Oklahoma e degli altri Stati meno ricchi.
Il lungo tragitto di circa 2.500 km attraverso le zone desertiche del Texas, del New Mexico e dell’Arizona, non avviene più con carri e cavalli, ma le condizioni sono difficilissime, e l’approdo non è migliore.
In California c’è lavoro per 800 persone, ma ne arrivano 8.000, e chi le ha fatte venire ha uno scopo ben preciso: sfruttare lo stato di indigenza dei nuovi arrivati e l’abbondanza di manodopera per pagare 2 centesimi e mezzo per ogni cassetta di pesche. Qualcuno fa notare che solo per nutrirsi occorre almeno un dollaro e dunque per la sopravvivenza bisogna riempire e trasportare quaranta cassette al giorno.
Ecco a questo proposito il dialogo fra Tom, il protagonista del film, ed un pastore protestante, per il quale la crisi economica si è trasformata in crisi di fede e che, partito con la numerosa famiglia di Tom, è giunto lì un po’ prima di loro ed ha già scoperto il meccanismo truccato della domanda, dell’offerta e del prezzo del lavoro:

- Cosa fai, qui, Tom?
- Lavoriamo. Raccogliamo pesche. Ho sentito della gente che urlava quando siamo arrivati e sono venuto a vedere perché urlava. Voi lo sapete?
- Si, c’è uno sciopero
- Ma cinque centesimi la cassetta sono parecchi
- Vi danno cinque centesimi?
- Certo, abbiamo fatto un dollaro in tre ore
- Senti, Tom. Anche noi siamo venuti a lavorare, anche a noi avevano detto cinque centesimi. Ma siccome poi eravamo troppi, hanno diminuito a due centesimi e mezzo. Uno non può vivere con così poco. Se poi ha bambini… Abbiamo detto che non accettavamo, e loro ci hanno cacciato. A voi danno cinque centesimi, ma credete che continueranno a darvene cinque?
- Adesso ce ne danno cinque
- Appena noi ce ne andiamo, ne danno due e mezzo pure a voi. Sai cosa significa? Un dollaro per raccogliere più di una tonnellata di pesche. E questo non basta nemmeno per non morire di fame. Unitevi a noi, Tom. Le pesche sono mature, basterà aspettare e vedrai che ci daranno più di cinque centesimi: sei, forse sette.
- Non vi illudete. La gente che ne prende cinque si accontenta.
- Ma appena finito lo sciopero, non gliene daranno più cinque. Prenderanno a calci anche voi. E’ la stessa storia tutti gli anni: quando c’è il raccolto sei un lavoratore stagionale, e dopo sei un vagabondo.
- Ehm, non c’è niente da fare: si accontentano di cinque. Sento già papà che dice che questi non sono affari nostri.
- E’ naturale, bisogna batterci il muso per crederci
- Ma lo sai che non avevamo più da mangiare? Stasera abbiamo mangiato. Non molto ma abbastanza. Credi che papà rinunci alle sue polpette per far piacere ad altri? Rosa è incinta: ti pare giusto farle patire la fame per quelli che urlano fuori dal cancello?
- E’ difficile dire quello che è giusto, Tom. Anch’io non lo so, e sto cercando di scoprirlo. Per questo non posso più fare il pastore. Un pastore deve saperlo, e io non lo so. Devo scoprirlo.

Dopo averci “battuto il muso”, la famiglia di Tom va via da quella fattoria e, come per miracolo, capita in uno dei campi gestiti dal Ministero dell’Agricoltura, che in cambio di lavoro offre un alloggio, una paga sufficiente per sfamarsi, servizi igienici e… rispetto.
E’ il New Deal, con cui nel 1933 il nuovo Presidente Roosevelt sconfiggerà la crisi: lo Stato ha deciso di sforare il bilancio dando lavoro per la costruzione di opere pubbliche. Tre anni più tardi l’economista inglese John Maynard Keynes spiegherà al mondo che quella era l’unica strada per riequilibrare la domanda e l’offerta di lavoro e dare impulso alla produzione. La crisi era stata originata dalla scarsa capacità di acquisto dei lavoratori e il rimedio era perciò quello di sostenere il loro reddito. I risultati ottenuti stavano a dimostrarlo: l’efficacia del farmaco indicò l’origine della malattia.
Questo gli americani l’hanno capito allora e se lo ricordano anche oggi. Gli Stati europei in crisi, invece, sono tornati all’economia classica e, se qualcosa non va, per loro il rimedio rimane quello del pareggio di bilancio e del laissez faire. Si è sempre dimostrato inefficace, ma non importa: a qualcuno può far comodo così.
.
Copyright 2012 – all rights reserved