sabato 29 gennaio 2011

La resistibile ascesa di Umberto B


Risultati elettorali della Lega Nord in 25 anni

Non vide il pericolo il pur bravo Gad Lerner, quando nel ’91 fece salire sul palco per diverse settimane i quattro secessionisti della Lega. Un palco privilegiato (gli spettatori oscillavano fra 1.300.000 e 2.500.000) dal quale i titolari delle partite iva individuavano i mali dell’Italia, non in una generale politica miope e dissipatrice, ma nell’assistenzialismo di cui, a loro avviso, il Sud godeva a danno del Nord. No, Lerner è giornalista intelligente ma, in quegli anni di sconvolgimenti politici e giudiziari, non seppe accorgersi della pericolosità di quei discorsi e della eccessiva animosità che li accompagnava. Insomma, non ebbe la lungimiranza di un Bertold Brecht.
Il 1989 la Lega era arrivata a 636.000 voti. Poi, fra ottobre ’91 e marzo ’92, Gad dedicò alle aspirazioni del “Profondo nord” e del mitico nord-est sedici puntate; e in aprile i voti crebbero fino a 3.400.000. Un caso? Una previsione? O una, sia pur involontaria, promozione pubblicitaria?
Quei tre milioni di voti del ’92, tuttavia, non divennero mai quattro. Ci si avvicinarono nel ’96, ma in tutte le altre tornate elettorali rimasero tre e spesso scesero a uno o due. Insomma, dopo il grande balzo, non solo non ci fu l’ascesa, ma per ben nove anni, il movimento secessionista – il federalismo è solo una tattica che nasconde ben altra strategia – scese dal 10 al 4,5%. La tabella qui riportata parla chiaro.

Ma, se nelle elezioni del 2009, anche dopo una certa ripresa, ogni 100 cittadini votanti, ci sono in Piemonte solo 17 leghisti, in Lombardia 25, in Veneto 35, in Liguria 10 e in Emilia 14 (in media, diciamo, una ventina, lasciando stare la Val d’Aosta ai valdostani e l’Alto Adige ai tirolesi), com’è questa faccenda che comandano loro?
Come mai un partito che si chiamava Forza Italia accettava di farla tagliare a fettine, l’Italia? E perché un partito che si chiamava Alleanza Nazionale ha accettato per quasi quindici anni di rompere, in qualche modo, l’unità della Nazione? No, non è un grande dilemma, la risposta è semplice: “cummannà è meglio e fottere” dicono i napoletani, anche se, come dimostrano il celodurismo di Bossi e l’harem berlusconiano, le due cose non sono incompatibili; anzi col potere le chance sembrano aumentare.

Teorie leghiste.

Di intellettuali, in mezzo alla Lega, a dire il vero ne ho visti e ne vedo pochi, a meno che non si vogliano ritenere tali gente come Calderoli, Borghezio e Tosi, che propagandano l’uso del dialetto, perché con la lingua studiacchiata a scuola ancora fanno a botte. Non parliamo del capo e fondatore, col suo lessico da osteria: quello ha carisma, dicono, e si vede che per i suoi fans questo basta e avanza.
Qualcuno c’è stato, però. Ad esempio il prof. Miglio, il quale, con in mano i risultati della Fondazione Agnelli sulle macro-regioni, ha instillato negli strati sociali scarsamente acculturati il convincimento che l’Italia andasse divisa in tre. Nessuno gli ha chiesto: "E perché non quattro? Quattro no, perché non cinque? Cinque no, perché non venti? Venti no, perché non cento, come le province, o diecimila, come i campanili?". Ma Miglio è morto, è andato in cielo, naturalmente nella zona nord, nei paraggi della stella polare, e oggi non può più rispondere.
Chi ne raccoglie l’eredità? Mi guardo intorno e continuo a non vedere fulgidi intelletti in gran numero. Uno però l’ho scoperto leggendo un vecchio articolo della rivista “Indipendenza”, dalla quale ultimamente ho avuto l’onore di vedere ospitato un mio scritto sulla scuola. Una bella rivista di approfondimento che mi ha vagamente riportato indietro di quarant’anni, quando, ancora giovane, andavo in edicola a comprare Rinascita per leggerla due volte.
L’intelligenza della quale sto parlando è quella del prof. Sergio Salvi e l’articolo porta il titolo “La nazione padana”. Per fortuna esso era preceduto e poi seguito da altri due della Redazione, che smontavano alle radici l’idea di Salvi, la quale si articolava su tre argomentazioni: 1) i dialetti della Val Padana non hanno nulla in comune con la lingua italiana; 2) l’affinità fra questi dialetti implica una nazionalità diversa rispetto a quella dei toscani e dei popoli residui della penisola (Salvi si rammarica del fatto che questi ultimi non abbiano saputo darsi un nome che li identificasse: sarà perché non hanno una propria cultura o perché, dopo essere stati chiamati per due volte a combattere gomito a gomito con quelli dal dna celtico, ritenevano di essere ad essi accomunati dall’italianità?); 3) se riconosciamo tre distinte nazionalità, l’azione della Lega, pur essendo criticabile per tanti versi, gioca oggettivamente un ruolo storico positivo: liberando il nord, libera anche gli abitanti appenninici, che non si rendono conto dei vantaggi che potrebbero avere dalla formazione di tre diversi Stati. Magari con un esercito comune ma con tesorerie ben separate!

Unitarietà dei dialetti padani e loro diversità dagli altri dialetti della penisola.

Abbiamo visto che la Lega non è poi così irresistibile (3.700.000 voti nel ’96 e 3.100.000 voti nel 2009 = -600.000), però certe trappole ideologiche vanno subito individuate e combattute. E, quella di Salvi, “trappola è”, anche se a farsene portavoce è uno col distintivo cangiante fra il rosso e il verde. Proviamo a indicarne i punti deboli.
Gli abitanti di una città hanno in comune una memoria storica, che comprende anche il linguaggio: costituiscono un “insieme”, scomponibile in tanti sottoinsiemi in base all’età, al sesso (le espressioni scurrili, ad esempio, sono tendenzialmente riservate agli uomini), al lavoro e al livello culturale. Se per un verso questo insieme è scomponibile in sottoinsiemi più ristretti, per un altro verso esso in parte si scontra e in parte si interseca con gli insiemi delle città limitrofe. Non appena un romano si allontana in direzione di Frascati o di Viterbo, avverte alcune differenze nelle parole e nell’accento, e queste diversità gli sembreranno a primo acchito inconciliabili col suo linguaggio; ma ben presto, se proseguirà il suo percorso verso Napoli o Firenze, si accorgerà che i dialetti di Roma, Frascati e Viterbo sono sì diversi ma, a confronto con quelli di Napoli e Firenze, hanno molto in comune, costituiscono cioè un insieme più grande, che li include tutti e tre.
Man mano che il viaggiatore proseguirà nelle due direzioni scoprirà ancora differenze e affinità, ma, finchè non giungerà a Milano e Palermo, le affinità consentiranno, sia pur con qualche difficoltà, tanto la conversazione quanto lo scambio epistolare: c’è insomma una lingua comune. Ben più difficile diventerebbe la comunicazione se proseguisse in direzione dell’Austria o della Francia. Salvi dice che il dialetto lombardo è più simile a quello occitano che a quello toscano, ma io sfido qualunque cittadino brianzolo a chiedere quanto costa un caffè in un bar di Marsiglia, se prima non ha soggiornato in quella città per almeno un mese o non ha fatto un breve corso di francese con le cuffie.
Fattori linguistici e culturali sono descrivibili come cerchi concentrici che si dilatano all’infinito e, man mano che ci si allontana dal centro considerato, le differenze aumentano, ma le affinità non raggiungeranno mai lo zero.

L’evoluzione linguistica.

Fra lingua e dialetti di una nazione corre lo stesso rapporto dialettico che si riscontra fra le ristrette comunità locali e l’organizzazione statuale, che a livello normativo ed economico le riunisce. Quasi sempre, e quasi dappertutto, i dialetti vengono lentamente fagocitati nel tempo da un linguaggio comune. Lo sviluppo storico rende ineludibile l’uso di termini giuridici, economici, scientifici e letterari comprensibili sull’intero territorio nazionale. La continua erosione finisce per impoverire i dialetti a tal punto da non poterli più utilizzare al di fuori di precisi ambiti e circostanze. Ogni lingua - attraverso la progressiva selezione e assimilazione del lessico dei vari dialetti e l’introduzione di termini nuovi apportati dalla scienza, dalla letteratura e dalle trasformazioni sociali in generale - tende a dilatarsi a scapito dei dialetti.

In Italia, attualmente, a fronte di circa 7.000 lemmi dialettali, diversi per ogni comunità, la lingua nazionale può contare sui circa 200.000 lemmi dei dizionari più comuni ed i 500.000 del Dizionario Treccani. L’uso esclusivo del dialetto si tradurrebbe perciò in un inevitabile impoverimento culturale, oltre che ostacolare la libera circolazione delle idee.
Quando Salvi parla di differenze dialettali, non tiene conto della dimensione diacronica dei fenomeni culturali e linguistici. Lingue e dialetti cambiano, si evolvono nel tempo, ma lui parla di antiche convergenze fra i dialetti lombardi, riferendosi indifferentemente tanto ai poeti del XIII secolo quanto agli studi di Rolhfs e di Pellegrini, che sono invece recentissimi (e con una impostazione metodologica che porta a un tracciato storico molto diverso da quello che, della nostra lingua, hanno saputo offrire Natalino Sapegno ed altri autorevoli storici della letteratura). Credo che le sue tesi in entrambi i casi non siano sufficientemente supportate, perché le poesie lombarde di Bonvesin de la Riva e quelle siciliane di Cielo d’Alcamo sono tuttora leggibili lungo tutta la nostra penisola senza bisogno di esperti traduttori; così come oggi dalla pianta dello stivale sono facilmente intuibili le interviste di un gondoliere veneziano e, dall’orlo del gambale, le interviste di un pescatore di Taranto. Ma, come dicevo, a parte questo, Salvi commette l’errore di non considerare minimamente quanto è successo in Italia negli ultimi cinquant’anni.

Negli anni Cinquanta vivevo nella stessa cittadina calabra in cui vivo oggi: la stessa solo per via del nome, perchè oggi è invece completamente diversa sotto il profilo culturale, intendendo il termine “cultura” nel senso antropologico affinato da Edward Sapir, cioè di abito mentale e stile di vita, come nel saggio “Culture, genuine and spurious” (armoniosa, la prima; portatrice di contrastanti valori manifesti e latenti, la seconda).
In quegli anni, per 25.000 abitanti, c’erano forse una cinquantina di classi delle scuole elementari e una dozzina delle scuole medie, oltre un liceo che arrivava forse a dieci classi, perché raccoglieva le iscrizioni dei paesini dell’entroterra. Oggi ci sono scuole di ogni ordine e grado e palazzi che in pianura hanno assorbito il sovraffollamento delle piccole case collinari. La più alta scolarizzazione (rinvio per questo al mio articolo Università: correlazione fra reddito e istruzione, pubblicato il 7 agosto 2010 su http://www.ilsemedellutopia.blogspot.com/), le nuove strutture urbane e la diffusione dei mezzi informatici fra le giovani generazioni hanno rafforzato il processo di omologazione culturale, già intravisto da Pasolini nel 1975.
Ancora più importante, ai fini dell’analisi dell’evoluzione culturale e linguistica, è la considerazione della mobilità geografica. Credo che un buon 30% della popolazione del sud abbia vissuto per periodi abbastanza lunghi nel nord o in altri paesi europei per motivi di lavoro e un altro 10-20% dei giovani lo abbia fatto per gli studi accademici.
In una dimensione sincronica tutto ciò non emerge. Fermi, nelle menti ferme, rimangono i cliché, gli stereotipi antichi. Ma le ragazze non dedicano più tutta la giornata ai lavori domestici e i giovani non aspettano più due mesi sotto la finestra della ragazza amata. Soprattutto né gli uni né gli altri parlano più il dialetto, se non occasionalmente scherzando fra amici o in espressioni tipiche familiari. L’istruzione, i viaggi e i mass media hanno mutato radicalmente i costumi e il linguaggio: nei luoghi pubblici, ma anche in quelli privati, si usa sempre più la lingua italiana. Forse il dialetto continuano a proporlo unicamente Bossi e i suoi amici nei gazebo, e in parte nelle adunate, per la pochezza degli studi e comunque col diabolico fine di trovare un nemico esterno: i meridionali nel 1990 e gli extracomunitari nel 2000. Un nemico esterno fa sempre comodo a certe ideologie, fu sempre “adottato” per cementare l’unità interna. Storia vecchia, ma purtroppo sempre efficace.

Colonizzatori e colonizzati.

Il teorema di Salvi si conclude – perché lì Salvi voleva andare a parare – con l’esigenza del riconoscimento di una nazione del nord. Ma questo presunto spirito nazionale padano non trova sufficiente riscontro nei numeri. Un tale spirito dovrebbe animare, non dico il 100% della popolazione, ma almeno il 90%; quando invece si ferma al 20%, non se ne parla.
Far poi coincidere i confini di uno Stato con certi confini linguistici (la cui esistenza in ambito regionale ho comunque cercato di dimostrare essere inesistenti) è un errore grossolano, e la dimostrazione inequivocabile ne è la vicina Svizzera. Lì si parlano tre lingue ufficiali, non tre dialetti facenti parte di un unico insieme, e tuttavia nessun cittadino svizzero vorrebbe mai per questo diventare cittadino tedesco o francese o italiano. Non è la lingua a fare lo Stato, ma la storia. E gli svizzeri una storia comune ce l’hanno: una storia di non belligeranza, di ordine sociale, di commercio e finanza, di welfare, di libertà.
Ma se proprio si dovesse giungere alla conclusione di una spaccatura dell’ Italia per aspirazioni autonomistiche, qualche altra considerazione allora bisognerebbe farla.
Di guerre di indipendenza la storiografia ne offre in abbondanza. Molti popoli hanno abbandonato l’ex Urss, mentre Cuba ha voluto piena autonomia dagli Usa ed i paesi del Maghreb dalla Francia. Andando indietro nel tempo, l’India e le altre colonie asiatiche si sono liberate dagli inglesi e, prima ancora, il Nuovo Continente ha reclamato la sovranità contro la dipendenza dagli inglesi, gli spagnoli e i portoghesi. Lo stesso hanno fatto nell’800 i lombardi e i veneti - proprio loro, sì - con l’Austria, mettendo “le birbe alla berlina” o rinunciando a fumare i sigari.
Tutti questi fenomeni storici hanno qualcosa in comune: sono stati sempre i popoli succubi, sfruttati, colonizzati, a pretendere la separatezza, mai nella storia è avvenuto il contrario. Perché allora, adesso, a reclamarla sono invece alcune zone geografiche economicamente forti e dominanti? E’ possibile dire, in modo tanto ipocrita, che i lombardi e i veneti siano stati sfruttati dai campani e dai siciliani? Ma, se così fosse, essi non avrebbero il reddito pro-capite più alto della penisola; non avrebbero una rete autostradale, seconda solo a quella della regione renana; non avrebbero gli ospedali che fanno il pieno di ricoveri con la gente del sud e le università con forti presenze da altre regioni; non attirerebbero lavoratori dalla Sicilia, dal Brasile e dall’Ucraina. Qui c’è una palese contraddizione: come si fa ad essere sfruttati pur diventando sempre più ricchi?

Il prima e il dopo.

Il Lombardo-Veneto, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie si possono anche rifare. Ma questo non succederà mai prendendosi reciprocamente a calci nel sedere, come sembra suggerire l’ideologia xenofoba e squadristica leghista. Per farlo occorre prevedere due fasi, una antecedente e una successiva.
La prima consiste nella restituzione del maltolto o nel risarcimento dei danni: le vite di tanti meridionali uccisi dai piemontesi e dei tanti uccisi dagli austriaci, per guerre che in alcun modo riguardavano gli interessi territoriali ed economici del sud; i patrimoni finanziari spostati tramite le banche; lo sfruttamento delle risorse naturali (c’era o no un granaio del sud?); l’apporto culturale in campo filosofico, scientifico e artistico; i pesanti tributi pagati per attrezzare il nord di infrastrutture e per sostenere conflitti bellici.
La fase successiva, consiste nel calcolo di un rischio. Da sessant’anni in Europa non ci sono guerre, ma questo non garantisce che non ce ne saranno mai più. Certo, tutti ce lo auguriamo - in fondo, la CEE prima e l’UE dopo sono sorte con questo scopo precipuo, oltre che per facilitare gli scambi commerciali – però uno dei pochi filosofi di un certo rilievo che l’Italia ha dato all’umanità, il napoletano Giambattista Vico, ha detto che la storia non ha un moto rettilineo ma circolare, ritorna periodicamente sulle proprie speranze e sui propri errori. Chi può smentirlo?
Se così non fosse, potremmo avere oggi al governo un Berlusconi dopo aver avuto per vent’anni un Mussolini? E, se così è, chi può escludere che un giorno ai bavaresi e ai renani, partendo dalla parte alta dell’Adige, non venga nuovamente voglia di annessione della Valle Padana? E allora, altro che i furbetti avvocati meridionali di cui si circondano, per poi lamentarsene, i grassi imprenditori del Po! Con nuovi elmetti teutonici che, ben inquadrati, tornassero a intonare la prima strofa dell’inno “Deutschland uber alles”, ci sarebbe poco da “bosseggiare” col braccio o col dito.
In una ipotesi del genere, mio nonno se l’avrebbe a male se i suoi discendenti tornassero a difendere l’italianità delle Alpi e del Po. Lui lo fece già nella Grande Guerra, mangiando poi bucce di patate crude in un campo di prigionia austriaco, ma, visti i risultati, di sicuro non vorrà che l’errore si ripeta. A meno che non si torni a ragionare. Ma, per questo, c’è bisogno di uomini di un certo livello culturale e morale.


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Lunedì, 7 febbraio 2011. Leggo su www.repubblica.it l’articolo di Ilvo Diamanti “L’anima romana della Lega”. Ne riporto qui di seguito alcuni stralci, perché l’analisi dell'autorevole sociologo avvalora quella qui proposta.

“…se la Lega perseguisse davvero la secessione e l'indipendenza padana rischierebbe la risacca elettorale seguita alle ondate del 1992 e del 1996. Perché, come ha sottolineato ieri Eugenio Scalfari, larghissima parte degli elettori del Nord è totalmente indisponibile a questa prospettiva. Secondo il recente Rapporto su “Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per "la Repubblica" (dicembre 2010), la quota di elettori delle regioni "padane" che considera utile dividere il Nord dal Sud non supera il 20%, ma sale al 37% fra i leghisti. Due terzi dei quali, dunque, rifiutano questa idea. Non solo: 8 elettori leghisti su 10 considerano l'Unità d'Italia un fatto (molto o abbastanza) positivo.”