martedì 21 settembre 2010

Le responsabilità dei vecchi


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Sono iscritto al blog di Beppe Grillo ed ogni giorno mi arriva una e-mail con le righe introduttive del suo ultimo articolo. Mi sono iscritto perché nutro grande simpatia per Beppe: ricordo di aver registrato, e poi rivisto diverse volte, i suoi lunghi monologhi di circa vent’anni fa in tv, in cui con satira intelligente fustigava la società consumistica.
Oggi Grillo lo si vede poco, lo hanno escluso dalla tv, da tutte le tv, neppure la nuova La7 gli concede spazi, e le parole non sono più accompagnate dalla sua straordinaria mimica e da quella voce che sottolinea i momenti clou dei suoi ragionamenti con un caustico falsetto.
Dobbiamo dunque accontentarci di leggere le sue nude parole sul blog. Ma non è questo il problema, perché leggendo è difficile non immaginare i suoi occhi rotondi sgranati e le inconfondibili modulazioni della sua voce. Il problema è un altro: è diventato il rappresentante politico del tre per cento degli Italiani e, per questo suo nuovo ruolo, dobbiamo stare attenti non solo alle sue critiche ma anche alle sue proposte.

Ho dato un’occhiata al programma del “Movimento 5 Stelle”: ha il merito di non essere così ambiguo come quello dei partiti di governo e di opposizione, ci sono proposte precise. Non dice genericamente, ad esempio, che si batte per la giustizia, ma specifica quali leggi sulla giustizia farebbe approvare se ne avesse il potere. Scorrendo però il lungo elenco di proposte, sembra mancare, e questo è il rovescio della medaglia della concretezza, una visione generale dei problemi a cui ricondurre ogni fatto particolare. Questo comporta il pericolo di grossi errori.

Uno di questi errori l’ho rilevato nell’articolo del 16 settembre dal titolo “Non è un paese per giovani”. Avendo figli, nipoti ed ex alunni in età di lavoro e, come tutti i giovani italiani, con problemi di inoccupazione e precarietà, sono andato subito a leggerlo e, ahimè, a un certo punto ne sono rimasto sconcertato. Riporto la frase incriminata con cui Grillo conclude l’articolo: “L'Italia è spaccata in due, non tra Nord e Sud, tra Sinistra e Destra, ma tra giovani e vecchi. I giovani non hanno nulla perché i vecchi hanno tutto.”
Dunque per Grillo le distinzioni politiche fra destra e sinistra non esistono più. Perché lo dice? Perché lui ha di mira solo il principio dell’”onestà” e, dato che ci sono politici disonesti a destra come a manca, il classico confronto fra partiti operaisti e partiti degli imprenditori è superato!
Stando alle sue precise parole, non c’è poi spaccatura fra nord e sud: l’Italia è uniforme, forse sempre per via della disonestà. Dunque la differenza nel reddito medio pro-capite fra un bresciano e un agrigentino dal punto di vista sociale è irrilevante.
Per lui il problema è solo generazionale: i vecchi hanno tutto e i giovani nulla!
Messa in questi termini estremi, la sua analisi mi sembra un tantino grossolana.

Il problema generazionale è stato posto per primo dagli economisti della Confindustria e sostenuto pervicacemente dalla destra ultraliberista del nostro Cavaliere (che tanto cavaliere poi non è, visto come tratta le giovani donne italiane, veline o escort - eufemistico anglicismo per indicare le prostitute di classe - e le serie e mature donne straniere come Angela Merkel, a cui fa cucù da dietro la colonna e che fa attendere a lungo all’aeroporto, perché… lui deve concludere una telefonata al cellulare).
Ma non deviamo dall’argomento centrale: sostituire lo scontro politico fra destra e sinistra e quello territoriale fra nord e sud è stato un abile stratagemma degli industriali e degli ultraliberisti: “Se mettiamo i figli contro i padri, né gli uni né gli altri manterranno più le loro identità politiche e territoriali”. Questa è la filosofia di fondo: trasformare il “conflitto sociale” in “conflitto generazionale”, lo stesso meccanismo utilizzato dai dittatori, per trasformare il dissenso interno in scontro, prima culturale e poi militare, con fantomatici nemici esterni.
Certo Grillo non riprende queste argomentazioni con le stesse finalità di Tremonti, dei prof. della Cattolica e del nostro Cavaliere, che attraversa le strade con la berlina blu, solca i mari con lo yacht e cavalca le nuvole con i jet. Grillo lo fa in buona fede. Ma ciò non toglie che, in questa occasione, cada in grave errore.

In una ricerca di dei proff. Rosina e Balduzzi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, tempo fa è stato analizzato il problema del debito pubblico italiano. Le loro conclusioni sono queste: lo Stato italiano, spendendo troppo per pensioni, sanità e scuola, ha contratto un debito che impedisce ora di aiutare i giovani. I figli insomma soffrono la disoccupazione perché i loro padri hanno preso tutto in passato. Alla stessa conclusione, chissà per quali vie, arriva Grillo. Allora è meglio ragionarci sopra con una certa serietà.

Il primo punto da rilevare è questo: lo Stato italiano si è fortemente indebitato negli anni Ottanta. Quello è stato il periodo, il decennio di Craxi, in cui il debito è passato dal 60 al 120% del Pil.
Ora bisogna considerare che i genitori dei ragazzi oggi in età di lavoro, cioè di 25-30 anni, sono persone che hanno cominciato a lavorare a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, e non negli anni Ottanta, quando cioè la spesa pubblica è improvvisamente esplosa a causa degli affari illeciti dei partiti politici.

Secondo punto. Questi genitori oggi dividono la pensione coi loro figli e, quando “migreranno” in cielo, non lasceranno ai figli solo il debito pubblico, ma anche i crediti che vantano verso lo stato per la sottoscrizione di quel debito, perchè questo debito è coperto da finanziamenti interni al 95% e solo in minima parte da sottoscrittori stranieri (1). Diciamolo in modo più semplice: chi lascia al figlio il peso di un debito pubblico di trentacinquemila euro (così è stato calcolato) e contemporaneamente al momento del decesso lascia titoli di stato di importo pari o superiore, non mi pare possa essere considerato un pessimo genitore. Se poi oltre ai titoli di stato lascia in eredità un appartamento, acquistato magari col mutuo, non sembra si possa parlare di vecchi egoisti che hanno preso tutto e non lasciano nulla.

Resta il problema della disoccupazione intellettuale: studiano, questi giovani, per quindici anni e più e poi non trovano occupazione. Ma Grillo dovrebbe sapere che in questo devastante fenomeno i “vecchi” non c’entrano. C’entra invece la disoccupazione strutturale causata da due fatti in cui, non essi, ma l’evoluzione del sistema economico voluto dagli industriali ha precise responsabilità: 1) le nuove tecnologie che inevitabilmente sostituiscono il lavoro con le macchine (vecchio problema denunciato da Robert Owen già nell’Ottocento, ma che oggi assume proporzioni notevolmente più consistenti); 2) la globalizzazione dei mercati, per cui gli imprenditori italiani spostano le fabbriche in Croazia, Romania, Cina, India ecc., o fruiscono in loco della manodopera degli immigrati, ai quali, proprio per tenerne bassi i costi e soggiogarli col ricatto dell’espulsione, si rende lungo e difficile l’ottenimento del permesso di soggiorno.

Terzo punto. La disoccupazione in Italia c’è sempre stata: nella prima metà del Novecento milioni di Italiani sono andati a lavorare in Argentina e negli Stati Uniti e, negli anni Cinquanta e Sessanta, altri milioni di Italiani del sud sono andati in Germania, Belgio, Svizzera, Francia o nell’Italia settentrionale.
La differenza fra quelle emigrazioni e le attuali sta nel fatto che prima emigrava la manodopera generica mentre oggi devono emigrare ragazzi che sono stati coccolati in famiglia ed hanno studiato con la speranza di un futuro migliore di quello che la società, così com’è organizzata, può offrire. Se oggi un ragazzo deve partire per gli Stati Uniti o la Norvegia, non bastano pochi spiccioli per i primi giorni: occorre prenotare un aereo e un Hotel. Cosa facevano invece gli emigranti cinquant’anni fa? Un amico o un parente che già si trovava all’estero per lavoro, li ospitava nella sua casa, talvolta una baracca, che condivideva con altri connazionali; insieme mangiavano un piatto di spaghetti e, finchè non arrivava il lavoro, portavano gli stessi vestiti con cui erano arrivati.
Oggi il neolaureato in filosofia o in economia o in biologia, per motivi più che comprensibili questo non è disposto a farlo. Come pure, giustamente, non è disposto a fare un lavoro qualunque, cosa che in fondo non vogliono neppure i genitori che si sono sacrificati a lungo per mantenerlo agli studi.

Insomma, caro Beppe, il problema non è così semplice come tu l’hai posto. E’ cambiata la struttura della società e sono cambiati i valori su cui essa si reggeva. E con tutto ciò i “vecchi” genitori non c’entrano: soprattutto non lo si può imputare ad una generazione che tanto ha cercato di fare per una società più equa e solidale. Che poi, fra di loro, ce ne siano stati tanti che, a parziale conferma della teoria della circolazione delle élites di Pareto, ci abbiano marciato e si siano ritrovati fra gli intellettuali più accreditati o gli imprenditori più ricchi o i politici più scaltri, di questo non si può dare colpa ai molti che hanno invece lavorato sodo, imparando a dire signorsì ai capi, e tirato la cinghia per pagare il mutuo ed i jeans griffati, nell’illusione di un futuro radioso di cui via via s’è persa ogni concreta possibilità ed ormai anche ogni speranza.

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Visto che ci siamo, approfitto di questa specie di “lettera aperta” al caro Beppe, per porre due domande sul suo blog: Ti arrivano migliaia di commenti al giorno. Come fai a leggerli tutti? Secondo me non ne leggi neppure uno. E in questo caso operi come la TV: trasmetti idee ma non ne ricevi.
Seconda domanda: Ti sei accorto che molti di questi commenti non hanno nessuna pertinenza con il tuo articolo del giorno e si limitano a ripetere sempre le stesse cose? Cose sacrosante, perbacco, ma che nulla aggiungono e nulla sottraggono alle tesi esposte nei tuoi articoli.
Da che pulpito viene questa predica? Da un nostalgico del PCI di Enrico Berlinguer, quello dell’austerity e del socialismo dal volto umano, un uomo che dovremmo più spesso ricordare e apprezzare per l’intelligenza politica, la saggezza e lo stile di vita.

Nota (1)
Almeno fino al 2001 il debito pubblico italiano era finanziato quasi interamente da fonti interne (v. Maura Francese e Angelo Pace:“Il debito pubblico italiano dall’Unità a oggi. Una ricostruzione della serie storica”, pag. 21, fig 5 - Banca d’Italia 2008.

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