venerdì 31 dicembre 2010

Appunti di vita scolastica. Il sermone della... palude

Nella sezione Antologia del sito Itineraricataldolesi ho inserito alcune pagine letterarie che prediligevo e fra esse ho incluso “Chiudiamo le scuole”, un articolo scritto da Giovanni Papini nel lontano 1914. Una scelta fatta non perché prendevo alla lettera l’invito del nostro originale scrittore, ma perché in quell’articolo si denunciava un certo tipo di organizzazione scolastica: una specie di prigione destinata agli anni migliori dei giovani, protèsi invece per natura in tutt’altra direzione, la libertà.

Forse in altre scuole è andata diversamente, ma in quella in cui io ho lavorato è andata sempre in un certo modo. Nella riunione del primo settembre l’argomento principe, roba da non crederci, concerneva inevitabilmente il problema della “pipì”. Quella degli alunni, naturalmente. A furia di sentire anno dopo anno il solito discorsetto, avevo ovviamente finito per mandarlo a memoria e, già nell’atrio, ogni volta, prima della seduta del collegio, ormai prevedevo con tutta sicurezza di cosa si sarebbe parlato in almeno due delle tre ore, in cui colleghe compunte e colleghi sussiegosi avrebbero ascoltato il sermone della... palude.
Ogni anno tutti i presidi alternatisi nella scuola si ponevano seriosamente il quesito di quante volte in un giorno l'alunno avesse il diritto di frequentare la toilette. E analizzavano poi le varie sfaccettature del problema: la sagacia con cui noi insegnanti avremmo dovuto intuire se la richiesta era ben motivata; il rischio che i giovani si chiudessero nella stanzetta e, di fronte al water, invece di soddisfare i naturali bisogni, fumassero una sigaretta; la incontestabile necessità di impedire ciò, privando la porta di un qualunque sistema di chiusura. Bando alle inibizioni, per gli alunni e le alunne!
.
L’argomento “pipì”, a dire il vero, non era l’unico in quelle riunioni. A un certo punto si cominciava a discutere anche di pizzette e panini. Negli scalmanati anni Settanta, verso le undici del mattino, alla scampanellata della ricreazione, i nostri giovanotti si precipitavano giù nel cortile. Dietro le “sbarre” c’era qualcuno che, con inventiva quasi napoletana (la Calabria Citeriore è sempre stata culturalmente un’appendice della capitale partenopea), aveva trovato il modo di sbarcare il lunario: confezionava due ceste di panini e pizzette, che distribuiva a modico prezzo ai giovani affamati. E quei giovani crescevano bene, allora. Li incontro ormai con i loro primi capelli bianchi, mi parlano delle loro attività lavorative e ricordano con nostalgia le lezioni e i momenti di “libertà”, concessi o rubacchiati.
Negli anni Ottanta, ahimè, venne però un dubbio: e se in quelle ceste c’era anche qualche spinello? Era quello il dubbio ufficiale, quello latente sorgeva invece dal problema di autorizzare alla vendita uno fra i tanti raccomandati, senza inimicarsi gli autori di altre segnalazioni. Comunque sia, da allora niente più pizzette e panini.
Per tanti anni a venire, il primo settembre, c’era sempre qualcuno che timidamente sosteneva il diritto, negato, dei ragazzi allo spuntino. E puntualmente il capo di turno, che durante la mattina, seduto sulla sua poltrona imbottita, consumava sei caffè e due cornetti, diceva: “Questo ormai non si discute più. Tutti sappiamo quanti pericoli ci sono!”. E nei suoi occhi ammiccanti traspariva la parola “droga”.
* * *
Volevo chiudere il 2010 - anno disastroso in Italia per l’economia e le turbolenze sociali - con un articoletto che bilanciasse gli altri che lo precedono, un post leggero e divertente. E invece m’accorgo di essere cascato nel tragicomico. Come definirlo altrimenti? Come definire una discussione che si ripete per lunghi decenni con la regolarità di una funzione religiosa e i cui esiti sono scontati in partenza? Come definirla, se il suo oggetto è una cosa tanto misteriosa come la determinazione del numero di minzioni a cui ha diritto un giovane in una mattina?
Si dirà che porre un limite è anche un fatto educativo. Non dicono forse gli psicologi che una delle fasi più importanti, nell’evoluzione di un bimbo di un anno, è segnata dalla capacità del trattenere? Ma è altrettanto logico - mi chiedo - che una signorina di sedici anni debba sapersi “contenere” per la quarta e quinta ora di lezione, mentre insegue teoremi e versi, solo perché è già uscita dalla classe nella seconda ora? I signori presidi, e con loro i colleghi di maggiore acume, a questo sapevano dare una risposta sicura.
Io purtroppo, dopo tanti anni, rimango ancora con mortificanti incertezze, e per questo lascio in bella evidenza la provocazione di Papini. Mi sembra che ci stia molto bene, in mezzo a due seriosi passi di Platone e qualche allegro raccontino, nella mia piccola antologia. Perché, se è vero che la scuola non va chiusa, è anche vero che essa non deve, per eccesso di prudenza, essere recintata come un istituto di detenzione, e tantomeno che gli alunni debbano sentirsi trattati come “detenuti”.
.
Copyright 2010 - all rights reserved